Sardegna e partecipazione civica non sono una coppia nata ieri, e neppure identica al resto del Paese. Il coinvolgimento dei cittadini ha radici antiche e nervature che cambiano col tempo, senza mai staccarsi del tutto da certe abitudini comunitarie. Oggi si nota un fermento che viene dal basso, spesso ibrido: tradizione con il suo passo lento e strumenti moderni che accelerano tutto. Ne risulta il ritratto di un’isola che ha provato a tenersi stretta un margine di autonomia nelle decisioni, dalle comunità rurali d’un tempo alle pratiche più recenti di governance partecipativa. Non si tratta di un percorso lineare, ma piuttosto di una traiettoria a zig-zag.
Le radici storiche, dalle Biddas ai comuni medievali
Prima che attecchisse il modello comunale “settentrionale”, le comunità sarde—le Biddas, funzionavano come piccoli mondi autonomi. Non erano immuni da pressioni, certo, ma sembravano meno permeabili a certi meccanismi feudali. Si potrebbe pensare che il paragone sia azzardato, ma in modo simile a come oggi si sceglie un casino online rispetto a quello fisico per sentirsi più liberi nelle scelte, le Biddas offrivano una flessibilità che si discostava dagli schemi rigidi dell’epoca. All’interno di queste strutture, la partecipazione era già una pratica quotidiana: decisioni collettive, voce ai membri, niente di sofisticato ma efficace.
Tra XIII e XIV secolo il Libero Comune di Sassari cambiò il quadro. Le forme di partecipazione diventarono più regolate e incanalate; non necessariamente peggiori, semplicemente diverse. Avvenne così il passaggio da una partecipazione informale a regole scritte, più vicine a quelle in vigore altrove in Italia. Non tutte queste soluzioni diedero sempre i risultati sperati.
La rinascita contemporanea, gli anni '60-'80
Ci fu un salto in avanti tra gli anni ’60 e ’80, quando si riaccese una scintilla, in realtà più di una. Comitati di quartiere, movimenti sociali, battaglie per i diritti generarono un’onda lunga che coinvolse fasce ampie di popolazione. Il caso di Cagliari e del movimento per la casa, per esempio, viene spesso citato: centinaia di famiglie mobilitate, rivendicazioni concrete, meno teoria e più pratiche.
In quei decenni maturò una sorta di “cultura della partecipazione”, una definizione impegnativa ma plausibile. Le assemblee pubbliche smisero di essere eventi occasionali e divennero palestre di confronto, sia sulle buche sotto casa che sulle grandi cause. Non accadde che all’improvviso tutti iniziarono a decidere tutto; tuttavia, molte persone cominciarono a sentirsi parte attiva e non solo pubblico silenzioso.
Le nuove forme di coinvolgimento istituzionale
Negli ultimi anni le amministrazioni locali hanno sperimentato vari strumenti formali: consulte sulla pianificazione urbana, tavoli misti con terzo settore e cittadini, percorsi di co-progettazione. Sulla carta, aumentano trasparenza e accesso; nella pratica, l’effetto dipende da competenze interne, volontà politica e pazienza dei cittadini.
Quando ben progettati, i bilanci partecipativi possono allocare parti reali del budget in modo condiviso. Le commissioni consultive portano al tavolo esperti e società civile. Resta il nodo di quanto pesino davvero queste sedi nelle decisioni finali. In certi comuni risultano decisive, in altri il loro impatto appare limitato.
L'innovazione dal basso, quando i cittadini propongono
In questa fase la questione diventa interessante. La crescita di iniziative provenienti dal basso spinge verso co-progettazioni più agili e talvolta alternative ai canali ufficiali. Alcuni studi suggeriscono che questi percorsi risultano più innovativi e spesso più rapidi rispetto ai processi istituzionali. Tuttavia, non accade sempre.
Comitati e gruppi informali rilevano problemi, che sfuggono all’amministrazione: rigenerazione di aree abbandonate, micro-progetti per la mobilità dolce, eventi culturali auto-organizzati. Talvolta questi sono piccoli interventi, ma quando funzionano lasciano segni concreti: un giardino rimesso in sesto, una strada resa più vivibile, una comunità che si riconosce.
Il protagonismo delle nuove generazioni
L’attivismo giovanile è particolarmente vivace. I giovani sardi intrecciano partecipazione civica, sensibilità ecologiche, richiesta di gestione condivisa degli spazi e pratiche di innovazione sociale. Spesso si pongono in modo critico rispetto ai grandi attori economici e a politiche percepite come estranee o calate dall’alto; in base ai casi queste posizioni appaiono più o meno fondate.
Strumenti come i social permettono di organizzarsi in poche ore, i flash mob consentono di farsi notare, progetti di economia circolare portano all’azione concreta. La struttura è poco gerarchica e più orizzontale. Spesso è anche inclusiva, anche se non sempre è scontato: partecipare richiede tempo, competenze, reti e non tutti dispongono immediatamente di queste risorse. Tuttavia, il segnale è presente.
Oggi la partecipazione civica nei comuni sardi appare come un mosaico: tessere antiche accanto a pratiche recenti, con una linea di continuità che rimanda alla volontà di autodeterminazione dell’isola. Dalle Biddas ai movimenti digitali, attraverso numerose tappe intermedie, si può riconoscere un filo conduttore. ANCI Sardegna cerca di svolgere un ruolo di raccordo: coordina, mette in rete, traduce linguaggi. Non ci riesce in ogni occasione. Ma quando l’ingranaggio funziona, il ponte tra istituzioni e comunità sembra più solido.
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