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Al Teatro Massimo di Cagliari “Il Padre” di Florian Zeller con Alessandro Haber – Lucrezia Lante Della Rovere

Cagliari, 29 Gen 2018 - Viaggio nella mente offuscata e stravolta dalla malattia, tra ricordi che svaniscono e immagini deformate e confuse, con “Il padre” di Florian Zeller (Premio Molière 2014) nell'interpretazione intensa e convincente di Alessandro Haber nel ruolo del protagonista e Lucrezia Lante Della Rovere, perfetta nel ruolo della figlia amorevole, per la regia di Pietro Maccarinelli.

La pièce del drammaturgo francese – in tournée nell'Isola sotto le insegne del CeDAC per la Stagione di Prosa 2017-18 – debutterà  mercoledì 31 gennaio alle 20.30 al Teatro Massimo di Cagliari (dove sarà in cartellone fino a domenica 4 febbraio - tutti i giorni da mercoledì a sabato alle 20.30 - la domenica alle 19 mentre giovedì 1 febbraio doppia recita con la pomeridiana alle 16.30 - turno P) per approdare lunedì 5 gennaio alle 21 al Teatro Comunale di Sassari  -  nell'ambito del Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo in Sardegna.

Nel cast – accanto ad Alessandro Haber e Lucrezia Lante Della Rovere – spiccano i nomi di   David Sebasti e Daniela Scarlatti, e ancora Ilaria Genatiempo e Riccardo Floris, che prestano volto e voce ai personaggi reali o immaginari, nel dramma di un uomo la cui identità va in pezzi per effetto di una forma di demenza, tra le suggestive scenografie di Gianluca Amodio, i costumi di Alessandro Lai, le musiche di Antonio Di Pofi e l'intrigante disegno luci di Umile Vainieri (produzione Goldenart Production).

Oltre La Scena/ gli attori (si) raccontano: venerdì 2 febbraio alle 18 allo Spazio ExMà in via San Lucifero 71 a Cagliari – Alessandro Haber e Lucrezia Lante Della Rovere, insieme con la compagnia, incontreranno il pubblico per approfondire genesi e temi dello spettacolo, e riflettere sul mestiere dell'attore e sul rapporto fra teatro e società – - ingresso libero fino a esaurimento posti

“Il padre” affronta un tema tragicamente attuale, quell'insidioso male che colpisce a tradimento, privando le sue vittime della coscienza di sé, dapprima aggredendone la memoria, cancellando i loro ricordi -  i volti, le voci, le parole, le emozioni e i pensieri – per poi proiettarli in un incubo, una sorta di nonsense, in un progressivo e inarrestabile declino delle capacità cognitive, quasi inavvertibile all'inizio poi sempre più vertiginoso, fino alla catastrofe. La vecchiaia -  l'età della saggezza, in cui sarebbe lecito e auspicabile godere i frutti delle fatiche e dell'impegno di una vita – viene così depauperata del suo tesoro più prezioso, di quello scrigno di ricordi, piacevoli o meno, raccolti e custoditi nel corso degli anni, su cui si fonda il senso stesso della propria identità.

La pièce del drammaturgo parigino, tra gli autori più interessanti della scena francese contemporanea, ha conquistato pubblico e critica oltre alle nominations per premi prestigiosi, dal Laurence Olivier Award al Tony Award all'Academy Theatre Awards in Israele: “Il padre” racconta una storia emblematica, mettendo a nudo la fragilità del protagonista, Andrea, attivo e intellettualmente brillante a dispetto degli anni, fino ai primi segni della malattia e lo smarrimento della figlia, Anna, legata al padre da un profondo affetto, alla ricerca della soluzione migliore per entrambi. Il manifestarsi dei primi inquietanti sintomi e l'aggravarsi della demenza rendono necessaria un'interferenza nella vita del padre, si modificano equilibri sottili, le geografie dei sentimenti e i rapporti fondamentali, si rimettono in discussione scelte, distanze e assenze – nell'impossibile e inutile calcolo di ciò che si è dato o ricevuto, o definitivamente perduto.

La vita è un dono prezioso – ma la malattia incide pesantemente e dolorosamente sulla felicità e la capacità di gustare i piccoli piaceri nella quotidianità in  un ménage à trois in cui il padre, così amato, è ormai diventato un intruso, e per certi versi un estraneo:  nella dimensione concreta e umanissima dello scorrere dei giorni, lo scoprirsi non più riconoscibili agli occhi dell'altro, dimenticati o scambiati per altre figure di un passato indistinto, o ignoto, provoca dolorose ferite che la ragione, o meglio la ragionevolezza non riesce a medicare. Il prendersi cura dei propri cari – una simbolica restituzione di quell'abbraccio avvolgente dell'infanzia, dell'ascolto, dell'attenzione e della pazienza, perfino delle ansie mascherate e delle gioie segrete – offre una parziale consolazione ma al prezzo di accettare un innaturale ribaltamento di ruoli, di riconoscere l'indebolimento e la decadenza delle figure incommensurabili dei genitori. I cuccioli della specie suscitano negli adulti un'istintiva tenerezza ma di fronte ad un anziano che richieda l'identica pazienza scatta spesso un'insofferenza, un fastidio o meglio l'incredulità e un implicito timore davanti al crollo di un mito.

Una mente brillante, uno spirito acuto e arguto improvvisamente lasciano il posto ad uno sguardo inquieto e confuso, da animale preso in trappola, di chi non sa più chi sia o dove si trovi, senza più cognizione del tempo, dapprima per un breve istante poi per intervalli sempre più lunghi finché il corpo resta quasi un guscio vuoto, una maschera di cera, un'inutile simulacro di qualcuno che pur vivo non è più. Il coraggio di affrontare una verità dura è forse il primo arduo gradino da superare, in una discesa agli inferi accanto a chi soffre di demenza, in un graduale scambio di ruoli perché mentre il malato precipita in un'incoscienza, quasi una nuova età dell'innocenza, spesso dopo aver invano combattuto per conservare la coscienza di sé e della propria identità, aggrappandosi ai ricordi e assistendo al proprio degrado, chi gli sta intorno avverte sempre più straziante il dolore per una morte annunciata.

Il teatro offre l'occasione di una catarsi, la possibilità di (ri)vivere identificandosi con i personaggi un dramma intimo e terribile in cui affiorano sensi di colpa e impianti, l'amarezza per il tempo perduto, per le conversazioni interrotte e gli incontri mancati, per le frequentazioni sempre più rare e a distanza nel ritmo frenetico della vita moderna.

“Il padre” di Florian Zeller descrive con crudo realismo ma anche con ironia e poesia l'inevitabile trasformazione del rapporto tra genitori e figli determinato dalla malattia, quell'assunzione di responsabilità per chi non è più in grado di decidere per sé, il coraggio di una scelta – non rara ma neppure facile – come quella di ristabilire i contatti, avvicinarsi, stringersi recuperando il valore della  famiglia intorno a chi sta male, battersi e poi arrendersi a fatica, confrontarsi con il senso di perdita. Le vicende dei personaggi riflettono – come in uno specchio – una condizione comune e umanissima, quasi un rito di passaggio reso più arduo dalle circostanze ma necessario, e comunque inevitabile, con la consapevolezza che le persone che abbiamo amato e che amiamo, continuano a vivere in noi. Com

 

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