Ampi segmenti della società e della politica sardi sembrano ammaliati dal sogno del ritorno ad un’isola felice e ricca del solo lavoro dei campi, in una estatica contemplazione di una natura museizzata. Un eden da ritrovare con l’aiuto della nostra macchina burocratico-ambientale, con il supporto dei “no” indiscriminati, con prese di posizione strumentali qui assai efficienti nel combattere i pochi coraggiosi investitori.
Un racconto secondo il quale agricoltura e turismo sarebbero, diversamente da quanto avviene in tutto il mondo, in antitesi con le attività manifatturiere e le oramai poche fabbriche rimaste ostacolo principale, anche storico, al dispiegarsi di un nuovo sviluppo.
Così, in un crescente clima di intolleranza, si rischia di considerare come ineluttabile o addirittura auspicabile la chiusura delle aziende industriali, mentre crescono disoccupati ed assistiti da ammortizzatori sociali e aumentano i già insopportabili oneri fiscali. Degrada nel disinteresse generale una grande cultura del lavoro, costruita faticosamente in tanti decenni e fatta soprattutto di saperi e competenze.
In questo contesto, il condizionamento sociale è tale che parlare di industria risulta “politicamente scorretto”. Si orienta l’interesse verso nuovi totem, inseguendo velleitarie prospettive autarchiche e di ritorno alle origini, smentite facilmente dalle più elementari analisi dei dati macroeconomici della Sardegna.
Noi crediamo invece che possa e debba esistere per la Sardegna un modello di sviluppo economico integrato e sostenibile tra i diversi comparti, industriale, agricolo, turistico e dei servizi e che ciascuno di questi, se accompagnato da una politica vera e da una pubblica amministrazione leggera ed efficiente, possa essere un volano virtuoso per gli altri.
Un modello, rispettoso dell’ambiente, delle nuove sensibilità, delle tradizioni e vocazioni dell’isola ma capace di dare ricchezza e lavoro e di competere nelle sfide che si giocano in Europa e nel mondo.
L’industria, come anche questa crisi internazionale dimostra, è la più importante leva per lo sviluppo, la creazione di reddito e l’occupazione, generatrice di una cultura scientifica, tecnica e manageriale diffusa ed irrinunciabile per il progresso sociale.
Il problema dello sviluppo della Sardegna non è e non può quindi essere che esistano ancora, e fortunatamente, imprese industriali e manifatturiere che costituiscono piuttosto una ricchezza da salvaguardare ed implementare. Il problema non è neanche l’eroico tentativo del comparto delle costruzioni di resistere per non morire nonostante abbia perso negli ultimi cinque anni oltre il 50% di occupati e produzioni.
Il problema dello sviluppo è che imprese e lavoratori dell’isola hanno bisogno di una politica industriale, che risolva i veri ed irrisolti nodi strutturali. Li conosciamo e li patiamo da anni: costi dell’energia, a partire dalla mancanza del metano; trasporti merci e collegamenti aerei; blocchi amministrativi; norme urbanistiche e paesaggistiche; ritardi dei pagamenti pubblici; inarrestabile pressione fiscale, anche locale; mancanza di infrastrutture adeguate; politiche del lavoro prevalentemente assistenziali e non attive.
Non abbiamo più molto tempo per fare le cose che servono, liberando le nostre aziende da oneri ed impedimenti insostenibili. Vogliamo continuare a credere possibile il fare impresa ed essere i veri testimoni per l’attrazione di quei nuovi investimenti necessari in un contesto globale altamente competitivo e selettivo.
Pensiamo sia pertanto giunto il momento perché, senza ulteriori dilazioni, i referenti istituzionali e politici prendano piena consapevolezza del problema e, al di là delle parole e delle enunciazioni di principio, assumano concretamente ed immediatamente ogni iniziativa utile al soddisfacimento delle reali esigenze delle imprese e dell’economia della Sardegna.





