Il caso di cui ci si occupa riguarda una paziente che decideva di sottoporsi ad intervento chirurgico di bypass digiuno-ileale per la riduzione dell’intestino, finalizzato al trattamento dell’obesità da cui era affetta. In seguito alle complicazioni insorte dopo l’intervento la donna decedeva e il medico veniva imputato di omicidio colposo.
Nel processo di primo grado il sanitario veniva condannato per il reato contestato sia ad una pena detentiva che al risarcimento del danno alle parti civili costituitesi in giudizio. In appello, invece, la precedente decisione veniva ribaltata e il chirurgo veniva assolto con formula piena. Ricorrevano quindi per cassazione le parti civili.
I profili di responsabilità nei confronti del sanitario che erano stati affermati nel processo di primo grado ed esclusi in appello e che sono stati esaminati dalla Suprema Corte riguardano la scelta del tipo di intervento e la condotta post-operatoria dell’imputato.
Per quanto concerne la scelta dell’intervento è emerso dall’istruttoria come sia stata la paziente a scegliere quella tipologia dietro consiglio di un sacerdote della congregazione dei testimoni di Geova e che la stessa è stata correttamente informata delle possibili complicanze mediante sottoscrizione di un modulo di consenso informato. Inoltre, tale tipo di intervento è incluso tra le prestazioni sanitarie rimborsate dal servizio sanitario: ciò implica un rilevante apprezzamento da parte di un organismo istituzionale su tale tipo di operazione. La quale non è peraltro risultata essere obsoleta perlomeno in ambito nazionale, differentemente da quanto accaduto nell’area anglosassone dove ebbe grande diffusione a metà del XX secolo.
Ed anche con riferimento alla condotta post-operatoria del medico non è stato ugualmente ravvisato alcun profilo di colpa. Infatti non è stato provato che la paziente si sia attenuta alle prescrizioni dietetiche e farmacologiche a lei impartite e che si sia sottoposta alle visite di controllo successive secondo la cadenza temporale impartita. Non si può perciò ritenere che la posizione di garanzia di cui è portatore il sanitario si estenda fino al dover ripetere insistentemente le prescrizioni e raccomandazioni nei confronti di una paziente adulta e già dimessa dalla struttura sanitaria.
Pertanto, nella sentenza n. 19556 del 07.05.2013 la quarta sezione penale della Corte di Cassazione ha ritenuto che quanto deciso dalla Corte d’Appello fosse immune da censure e che quindi non si poteva ravvisare alcuna condotta concretamente rimproverabile a carico del medico chirurgo. Con la stessa sono stati rigettati i ricorsi e i ricorrenti sono stati condannati al pagamento delle spese processuali. CS.