In una recente pronuncia la Corte di Cassazione ha affrontato il caso di una donna che, durante la gravidanza, si era sottoposta ad ecografia morfologica per accertare la eventuale presenza di malformazioni del feto. Non essendo risultato nulla di anormale, non aveva perciò ritenuto necessario sottoporsi all’amniocentesi. Il bimbo, purtroppo, nasceva con una grave malformazione e la donna decideva quindi di agire in giudizio nei confronti del suo ginecologo, adducendo il motivo che se fosse stata a conoscenza della malformazione non avrebbe portato a termine la gravidanza.
Nel primo grado di giudizio il Tribunale aveva accolto la domanda della coppia nei confronti del medico, condannando quest’ultimo al pagamento in loro favore della somma di 600.000 euro. Per il giudice di prima istanza, infatti, la mancata diagnosi aveva di fatto impedito l’esercizio del diritto di interrompere la gravidanza.
La Corte d’Appello, tuttavia, ribaltava la sentenza di condanna del medico. Infatti, pur ribadendo la sussistenza della responsabilità del sanitario per la prestazione professionale negligente, non ritenevano provati in giudizio la volontà della madre di abortire nel caso in cui fosse stata informata della malformazione né il diritto a farlo. Per eseguire una interruzione volontaria di gravidanza è necessario, oltre all’accertamento di una patologia del feto, un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. E tale circostanza non era emersa nell’istruttoria del giudizio.
Investita della questione con ricorso dei genitori, la Corte di Cassazione si pronunciava in loro favore accogliendo la loro istanza in forza di due importanti principi.
Innanzitutto, la legge consente alla donna di evitare il pregiudizio che da quella condizione del figlio deriverebbe al suo stato di salute: da ciò si desume come conseguenza normale che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto e, dunque, che il mancato esercizio di tale facoltà sia ricondotto al difetto di informazione.
Tuttavia la Corte è giunta ad affermare che la semplice richiesta di accertamento diagnostico o di più accertamenti sulle condizioni del feto non rappresenta un indice univoco della volontà di sopprimerlo se malato, ma spetta invece sempre alla donna provare che l’informazione omessa avrebbe provocato un processo patologico tale da determinare un grave pericolo per la sua salute che l’avrebbe indotta alla interruzione della gravidanza.
La Suprema Corte, differentemente dai giudici di primo e secondo grado, riconosce espressamente il diritto della futura madre ad essere informata circa le condizioni di salute del nascituro, a prescindere dalla sua volontà o meno di abortire. Tale diritto, infatti, rileva non tanto per la maturazione delle condizioni che abilitano la donna a chiedere l’interruzione di gravidanza, ma di prepararsi psicologicamente e, se necessario, anche materialmente all’arrivo di un figlio menomato.
Da qui discende la legittimità della richiesta di risarcimento dei danni derivati dalla nascita e, dunque, del danno biologico e del danno economico.