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“Diritto in pillole”: obbligare un alunno a scrivere nel proprio quaderno frasi umilianti per punizione ed intimorirlo è reato

Il caso di questa settimana riguarda la condanna di una professoressa presso una scuola media statale di Palermo per il reato di cui all’art. 571 del codice penale, con il quale viene punita la condotta di chi “abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte”. L’autore è punito, se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei mesi.

La condotta incriminata era consistita nell’aver costretto un alunno di 11 anni a scrivere sul proprio quaderno la frase “sono un deficiente” per cento volte, rivolgendogli, inoltre, frasi umilianti e intimidatorie quali la minaccia di sottrarlo alla tutela dei genitori. Tale comportamento aveva causato un forte disagio psicologico nel minore, rendendo perciò necessarie cure mediche ed un percorso terapeutico di psicoterapia.
Tale energico intervento da parte dell’insegnante veniva giustificato dall’intenzione di interrompere una condotta “bullistica” dell’alunno nei confronti di un suo compagno di classe dallo stesso ingiustamente denigrato.

Dopo una assoluzione nel giudizio di primo grado, motivata appunto dalla ritenuta adeguatezza della condotta posta in essere alla finalità educativa perseguita in ragione di un necessario intervento correttivo immediato, l’insegnante veniva tuttavia condannata dalla Corte d’Appello di Palermo alla pena di un mese di reclusione oltre al risarcimento del danno in favore della persona offesa costituitasi parte civile.

I giudici del giudizio d’appello, infatti, riducevano innanzitutto la portata dell’episodio in danno del compagno che aveva portato al discusso intervento della docente. Inoltre, esaminando quella che era la personalità dimostrata dall’alunno fino a quel momento, non ritenevano necessario un intervento particolarmente rigoroso nei suoi confronti come quello posto in essere.

A seguito del ricorso proposto dal difensore dell’imputata, veniva investita della questione la sesta sezione penale della Corte di Cassazione la quale si pronunciava con sentenza n. 34492 del 10.09.2012.

Il percorso logico-giuridico seguito dai giudici della Corte nella sentenza prendeva spunto dalla illiceità dell’uso della violenza fisica o psichica anche se finalizzata a scopi educativi. Ciò sia per il primato ormai attribuito alla dignità della persona del minore, sia perché non può perseguirsi una finalità educativa sensibile a valori quali pace, tolleranza, convivenza e solidarietà mediante l’uso di mezzi violenti ed offensivi che contraddicono tali fini.

Inoltre, veniva ribadito come nella letteratura scientifico-pedagogistica i metodi di educazione rigidi ed autoritari che utilizzano dei comportamenti costrittivi e violenti come quelli adoperati dall’imputata siano considerati pericolosi e, in certi casi, anche dannosi per la salute psichica.
Pertanto, la Corte confermava la condanna della professoressa sensi dell’art. 571, primo comma, seppur riducendola a 15 giorni di reclusione perché non riteneva provata la lesione personale psico-fisica subita dall’alunno e, dunque, non sussistente l’aggravante di cui al secondo comma. CS.

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