Si chiude nel caos l'assemblea del Pd. L'intesa raggiunta faticosamente dopo settimane di mediazione non ha tenuto alla prova dei numeri ed è saltata la modifica dello statuto, compresa la definitiva separazione delle figure di segretario e candidato premier. Resta fissata la data dell'8 dicembre per le primarie, su questo Guglielmo Epifani si è impegnato, ma senza lo snellimento delle complicate procedure congressuali l'appuntamento è ad alto rischio.
E di là dalle dichiarazioni ufficiali, i renziani temono che sia stata preparata una trappola per dilatare i tempi e intendono premere per il rispetto degli impegni. Ma confidano sulla parola data dall'assemblea e dal segretario. "Sarebbe un colpo di stato", ha avvertito un renziano di ferro. Certo, assicurano fonti vicine al sindaco di Firenze, "siamo dispiaciuti per come è andata".
Certo se la mancata modifica di fatto fa gioco a Renzi, che sarà automaticamente anche candidato premier, il pericolo che non si chiuda il giorno dell'Immacolata c'è. Sotto accusa sono finiti non tanto o non solo veltroniani e bindiani, ma bersaniani e lettiani che avrebbero lavorato sottotraccia per dilatare i tempi del congresso e mettere al sicuro il governo.
Sulle responsabilità del fallimento dell'intesa però le varie correnti sono l'un contro l'altra armata. A dichiararsi apertamente contro la modifica dell'articolo 3 dello statuto,
che avrebbe superato l'automatismo tra leader del Pd e aspirante presidente del Consiglio, sono usciti allo scoperto sia Rosy Bindi sia il veltroniano Enrico Morando che Pippo Civati. Ma che non ci sarebbero stati i numeri per far passare le revisioni è apparso chiaro quando l'assemblea ha votato le proposte della commissione congresso alla direzione che il 27 dovra' mettere nero su bianco le regole: i voti sono stati 476, di cui solo 378 favorevoli, mentre il quorum di si' necessario per emendare la carta fondativa del Pd è di 471 si'.
A quel punto è stato chiaro che non ci sarebbero stati i numeri, a maggior ragione dopo la richiesta di Luigi Mariucci di votare separatamente le singole modifiche. La commissione si è riunita di nuovo in fretta e furia, ma nonostante un'ora di confronto non c'è stato margine di accordo. L'ipotesi iniziale, presentata da Davide Zoggia, era di far sparire le correzioni al solo articolo 3 e lasciare le modifiche all'articolo 18 per rendere permanente la deroga che consentì a Matteo Renzi di sfidare Pier Luigi Bersani, oltre alla semplificazione delle procedure.
La proposta però è stata respinta. E a sollevare perplessità per primo sarebbe stato il lettiano Gianni Dal Moro. Nemmeno un'ora prima, Renzi aveva sparato su Letta richiamandolo a "non scaricare su altri la responsabilità dello sforamento del 3%" del rapporto deficit-pil.